domenica 12 maggio 2013

Aiming at... COWORKING

Il successo delle iniziative di coworking è un dato di fatto: sta nei numeri delle iniziative che sopravvivono alla fase di start up, nei numeri degli “abitanti” che crescono come domanda spesso più che proporzionalmente alle evoluzioni dell’offerta, nella risonanza che la loro attivazione ha sui media tradizionali e soprattutto internet e social.
I razionali dell’efficacia di tale modello sono diversi e tutti ben trattati in articoli, libri e diffusi anche dalle pagine degli specialisti dell’innovazione come Wired o il bellissimo blog dell'innovazione Che Futuro! Basso costo rispetto ad alternative equivalenti per piccolissime start up e soprattutto freelance professional, valore aggiunto del network fisico in termini di competenze e know how transfer (soprattutto per i coworking verticali à la Talent Garden), boost di creatività generato dallo stare a contatto con persone dinamiche e di talento, la crescita indotta dalla condivisione non solo di spazi ma anche di servizi commerciali e consulenziali.
Tutto questo funziona e crea valore in due macro-classi:
·         Per gli abitanti degli spazi del coworking: perfezionano le proprie idee, modelli operativi e di business, si avvantaggiano di shared services, utilizzano il brand dello spazio (nei casi in cui funziona…) per la propria visibilità.
·         Per il mondo del Real Estate: in un periodo di forte crisi della domanda di uffici “tradizionale”, il coworking è uno straordinario attrattore di fondi che, se parcellizzati, apparirebbero poco significativi e non intercettabili, e che, ove filtrati dal gestore del coworking, diventano un volano di volumi e saturazione di spazi.
Ne deriva che il gestore degli spazi di coworking, che riprendendo metaforicamente i paradigmi del Cloud Computing potremmo definire un fornitore di DaaS (Dwell as a Service), può intercettare valore mediante fee sull’affitto della postazioni, sui servizi shared erogati o, in via evolutiva, sul business degli abitanti, nella misura in cui ne facilita o abilita fattivamente lo sviluppo grazie ad azioni di sales & marketing o per l’efficacia del proprio brand.
Basta cosi? Beh, ce n’è da fare per raggiungere ad un livello industrialmente consistente certi target! Ma non mi accontenterei… c’è un passo ulteriore che si può fare estendendo la rete degli stakeholder alle imprese di medie e grandi dimensione che nativamente non appartengono alla realtà del coworking/DaaS.
Per spiegarmi meglio faccio un passo indietro con una domanda: qual è il fattore critico di successo delle iniziative di coworking/DaaS? La qualità dei talenti aggregati negli spazi e la comunanza di obiettivi e missione degli stessi. La risposta è apparentemente semplice e ovvia ma genera un ulteriore domanda: come si scovano/attraggono i veri talenti e come si progetta o crea o intercetta tra loro una comunanza di obiettivi? Lo si fa con metodologie strutturate di selezione (hiring: non basta che uno paghi l’affitto), con una verticalizzazione dei target (focusing: il settore di appartenza non è indifferente nella scelta degli abitanti), con manager del gestore di DaaS capaci ed essi stessi riconosciuti e riconoscibili innovatori nella stessa community (mentoring: non è un affitto, ma un processo di creazione di valore che richiede skill industriali e manageriali degne di una multinazionale di successo). E qui è il punto!
Riassumendo: i modelli di Dwell as a Service producono valore se attivano efficacemente meccanismi di hiring, focusing e mentoring. Ora: un tale valore “riempie” solo le bocche di abitanti e proprietari immobiliari (le due macro-classi prima citate) o c’è dell’altro? La mia opinione è che ci deve essere dell’altro! E che questo altro va ricercato in una collaborazione strutturata con medie e grandi aziende non viste solo come clienti degli abitanti dello spazio di coworking (tema che rimane fondamentale) ma anche come fruitori delle competenze del gestore DaaS che da mediatore/facilitatore diventa protagonista di un suo business model.
Cito alcuni esempi per spiegarmi meglio: arredare e rendere gli ambienti di lavoro più confacenti alla motivazione e alla capacità innovativa di chi vi opera, far interagire professionisti complementari con meccanismi di workshop e condivisione, operare su un brand dello spazio che incrementi l’orgoglio e il senso di appartenenza di chi vi opera, supportare l’innovazione dando stimoli diffusi alla popolazione per poi raccoglierne e filtrarne/razionalizzarne i frutti a beneficio dell’impresa (crowdsourcing like). Questi sono tutti elementi che, con conoscenze esplicite e tacite, i migliori gestori DaaS hanno e che rappresenterebbero un valore importante per molte imprese.
Non penso ovviamente alle multinazionali dell’innovazione (evito l’elenco tanto ci capiamo…), ma a tutte le realtà di centinaia o poche migliaia di dipendenti che in passato avevano nella loro cultura l’innovazione, ma che ora si ritrovano statici incumbent non pienamente in grado di fronteggiare agilmente i percorsi di rinnovamento e diversificazione che i nuovi paradigmi di mercato impongono.
Si andrebbe così configurando una terza macro-classe di creazione di valore: i servizi del gestore DaaS alle imprese esterne al proprio network. L’aspetto interessante di questa macro-classe è che non cannibalizzerebbe le altre due, ma anzi genererebbe un circolo virtuoso di contatti utili agli abitanti e un elemento aggiuntivo di reason-why per la fruizione degli spazi DaaS anche da parte di aziende esterne (e non è un caso se queste si stanno affacciando al mondo del coworking allocando team pro-tempore per l’innovazione proprio in quelli spazi, spesso però erroneamente interpretati come “spazio giochi”).
Mentre si consolidano i paradigmi in essere del DaaS, si allarghi dunque la cerchia degli stakeholder che ruotano intorno a questo mondo senza toccarlo veramente e intercettando il valore che ne deriva. Questo è il next challenge e vedrete che qualcuno tra non molto vi darà evidenza di questo movimento…
Vostro,
AP

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